Nedo Merendi è – secondo momenti dettati da urgenze personali e mai condizionati da un mercato dell’arte dal quale si è sempre tenuto lontano – pittore, decoratore su ceramica e disegnatore.
Alla pittura, a olio e su spesse tavole in genere di formato molto ridotto, sembra avere affidato il compito di sigillare – con la sospensione misteriosa, l’acutezza, la perizia e la precisione degne di maestri quali Vermeer, Vallotton, Spilliaert o Hammershoi – soggetti negletti e banali: in genere paesaggi della bassa romagnola, marginali e antispettacolari come quelli fotografati da Guido Guidi. Felliniano di formazione, Merendi ha aggiunto però a questa visione minima una rara carica affettiva e con dolcezza sconfinata – ma anche con la durezza di una intelligenza cristallina – ha inseguito il vero oltre le apparenze sensibili per riconsegnarcelo sotto una veste pura e assoluta ma anche abbacinante, stordente, emozionante e struggente. Le sue vedute sono frutto di estrema sintesi ma anche di abbandono alle multipresenze che animano la natura e il manufatto più banale. Si tratti di alberi trascurati, di case periferiche o abbandonate, di fossi, di campi, di segnali stradali, di linee bianche sugli asfalti o del generoso sfoggio coloristico di un cespuglio fiorito, Merendi sa cogliere il silenzioso attimo perfetto: centripeto per denso senso di concretezza e centrifugo per l’apertura a rimandi, allusioni e immaginazioni.
A fianco di questi affondi nel cuore più intimo del vero si colloca la sua pratica ceramica che, invece, sembra interessarsi maggiormente alle superfici del visibile, all’epitelio e a quanto Rilke definiva “la buccia e la foglia”. Qui le sue capacità di sintesi grafica si dilatano fin verso la manipolazione soggettiva e l’astrazione dando conto di una molteplicità di visione dei dati naturali più comuni senza che, però, vengano mai a mancare quei caratterizzanti segni di riconoscenza e di meraviglia nei confronti di una misconosciuta e per molti versi immotivata bellezza.
Poi, il disegno. Con il disegno Merendi si è fatto notare tra gli allievi di Umberto Folli all’Accademia di Ravenna ritraendo le stesse improbabili modelle scelte dal suo Maestro e al disegno è ricorso nel tempo con cicli di opere dedicati, via via, alle nature morte, a colossali rape (minuziosamente percorse nel loro più sottili dettagli ma che possono anche sembrare stazioni satellitari o città fantastiche), a invenzioni oniriche e favolistiche abitate dagli spiritelli dell’infanzia e riportate in rosso e in blu (i temuti colori delle correzioni scolastiche di un tempo) e a paesaggi fotografati durante i viaggi di un personale, cautamente rateizzato, Grand Tour.
Merendi è artista sofisticato, difficile e complesso. Utilizza i mezzi più tradizionali per opere dai risvolti anche concettuali e sa abilmente nascondere fonti e traiettorie delle sue opere. Tanto per dare qualche riferimento si ricorda che, oltre all’amato Fellini, è David Lynch a tenere il posto d’onore nelle sue preferenze cinematografiche (dall’immaginario inquietante di Eraserhead ai lati oscuri e nascosti di una piccola città che sono i veri protagonisti di Velluto blu); in campo teatrale ha seguito come un innamorato le tournée europee di Pina Bausch (che ha magistralmente unito improvvisazione e rigore nel suo Tanztheater) e anche quelle di Robert Wilson (master of lights e di algidi formalismi); in letteratura va da Cechov (testo preferito Una storia noiosa per l’umanissimo finale) ai testi contemporanei più liminari. Sembrerebbe un caos ma, in realtà, questi apparentemente antitetici interessi convogliano in quella duplicità, o molteplicità, di visione che, in fondo, davvero sostanzia il suo lavoro.
Ogni suo disegno, a prescindere da primati vasariani, è il campo dove un gioco di rimbalzi, una sorta di infinita partita a ping pong o di palla a muro, gli riesce forse più facile. Rimbalzi tra figurazione e astrazione; tra realtà visiva, mediazione fotografica e disegno; tra affondi nei dati microscopici e una grandiosità d’assieme da “ottica ultragrandangolare; tra tradizione e innovazione; tra sapiente uso e controllo delle tecniche più impervie e loro nascondimento; tra discorsiva narrazione e perentorio simbolo; tra le sorprese del quotidiano e le banalità dell’eclatante; tra un verismo figlio di una antica vocazione umanistica dell’arte e assoli sperimentali; tra netto rifiuto dei catastrofici destini contemporanei dell’arte e distillate attenzioni alle effrazioni; tra realtà e sogno; tra oggettività e visionarietà.
Tutto qui, anche se non è poco. Per ottenere questo stato di coinvolgente sospensione occorre il talento speciale di chi è dotato di sguardo radioscopico, di una seconda vista, di una doppia possibilità di ascolto. Dietro la piatta attualità, sembrano dire i suoi disegni, si nasconde un oltre, un qualcos’altro, anche l’invisibile. Non c’è disegno di Merendi che non tenti di squarciare l’oscurità naturale delle cose, di illuminare il mare buio della banalità e non aliti dubbi di fronte a quella preda sfuggente che è il reale. Segreti, un qualcosa di inaspettato, quello che non si sospetta di vedere, il breve lasso di tempo in cui ogni cosa è perfetta, la ricerca di un momento, l’istante memorabile, un qualcosa da afferrare e preservare e l’intersezione tra vita quotidiana e teatralità, tra ordinario e meraviglioso, sono, in fondo, i suoi veri soggetti. Presenze emergono dal buio grazie alle luci orientate su di loro e, anche solo per un attimo, esse appaiono intatte e, se pur banali e quotidiane, sconosciute e interrogative.
Il suo mentore, Fellini, non esitava ad affermare che “L’unico vero realista è il visionario” e si ha davvero impressione che i suoi disegni contengano una qualche verità sulla fusione costante, tipica dell’esistenza umana, tra banalità e tragedia, tra sofferenza e gioia, tra sorpresa e disincanto.
Che si tratti di Istanbul o della più vicina costa adriatica, come di un paesaggio collinare, Merendi fissa un momento senza mirare a un centro preciso.
Tante sono le suggestioni. Dove va quell’uomo di spalle? Chi avrà piantato il rampicante che segue la linea del pluviale?
Che parole escono dalle finestre unite dalle tesate per i panni da asciugare? E le figure distese ad ammirare un panorama? Si può apprezzare la vastità del cielo come un brandello di mare in lontananza dietro le case, come lo strano rigonfiamento della sabbia in prossimità della battigia. E la solitudine dei tanti bagnanti non avrà qualcosa a che fare con la occhiuta nuvola che li sovrasta?
Ombre e luci di un paesaggio collinare messo in vibrazione da un vento dall’incerta origine. Attrazione per le ombre gettate sulla sabbia da minuscoli frammenti di conchiglia e per lontane, inarrivabili, costruzioni dove, tuttavia, qualcosa sta accadendo. Gorghi e luccichii dell’acqua. Un soffio. Un lontano rumore. Dettagli e vastità. Vero, astrazione e immaginazione. Microscopio e grandangolo. Tante direzioni.In questa sospensione nessuna risposta definitiva: solo l’essere stato in mezzo a queste realtà, a questi accadimenti e a queste tante storie.